lunedì, febbraio 18, 2008

Tratto da RAGIONEVOLI DUBBI

Tratto da RAGIONEVOLI DUBBI di Gianrico Carofiglio
Capitolo 18

Chiusi lo studio dopo che Maria Teresa se n’era andata da un bel pò.
Arrivai a casa, presi un gelato dal frigo, me lo mangiai, poi diedi mezz’ora di pugni al sacco, feci piegamenti fino a quando le braccia non reggevano più, mi andai a ficcare sotto la doccia.
Mi chiesi dove fosse Margherita, in quel momento, e cosa stesse facendo; ma non mi riuscii a immaginarmela. Non volevo, probabilmente.
Mi vestii e uscii. Da solo e senza una meta, come capitava sempre più spesso.
Ebbi l’impulso di chiamare Natsu, e chiederle se voleva che passassi a trovarla.
Non lo feci e invece me ne andai in giro, per la città battuta dal vento freddo.
Avevo strane, sgradevoli avvisaglie. Forse stava per ricapitarmi quello che era successo quando Sara mi aveva lasciato: insonnia, depressione, attacchi di panico. L’idea fu disturbante, ma nel momento stesso in cui la concepivo mi resi conto che quelle cose non sarebbero accadute.
Ero stabilmente un disadattato, ormai. Mi ero garantito una stabile, mediocre infelicità, mi dissi. Immunizzato da una infelicità devastante in cambio di una insoddisfazione permanente e desideri inconfessabili. Poi pensai che facevo delle riflessioni banali, patetiche, e che mi autocommiseravo. Io ho sempre detestato quelli che si autocommiserano.
Così decisi di andare a comprarmi qualche libro.
A quell’ora – erano le undici – avrei trovato un solo posto dove comprare libri e fare anche due chiacchiere. L’Osteria de Caffellatte, che nonostante il nome è una libreria.
Apre la sera alle dieci e chiude la mattina alle sei. Il libraio, – Ottavio – è un ex professore di liceo con l’insonnia cronica. Aveva tenacemente detestato il suo lavoro di professore per tutti gli anni in cui era stato costretto a farlo. Poi una vecchia zia, senza figli, senza altri parenti, gli aveva lasciato soldi e un piccolissimo palazzo in pieno centro. Pian terreno e due appartamenti, uno sull’altro. L’occasione della sua vita, presa al volo e senza esitazione. Era andato ad abitare al secondo piano. Al pian terreno e al primo piano ci aveva fatto una libreria. Siccome di notte non poteva dormire si era inventato quell’orario. Assurdo, avevano detto in molti, e invece aveva funzionato.
C’è gente a tutte le ore, all’ Osteria de Caffellatte. Non molta, m a tutte le ore. Tipi strani, ovviamente, ma anche, soprattutto, tipi normali. Che poi sono i più strani di tutti se li trovi a comprare libri alle quattro del mattino.
Ci sono tre tavolini e un piccolo banco da bar. Se ne hai voglia puoi bere qualcosa o mangiare una fetta delle torte che Ottavio prepara nel pomeriggio, prima di aprire. La mattina presto puoi fare colazione con le stesse torte e il caffelatte. Se ti trovi in libreria al momento al momento della chiusura, lui ti regala la torta avanzata, ti dice ci vediamo domani, chiude e poi, davanti all’ingresso, si fuma l’ultima sigaretta della giornata. Dopo va a farsi un giro per la città che riprende vita e quando gli altri cominciano a lavorare lui se ne va a dormire, perché di giorno ci riesce.
In libreria c’erano tre ragazze che si stavano raccontando qualcosa di divertente. Feci caso al fatto che ogni tanto guardavano verso di me, e poi ridevano più forte. Ecco, pensai. La mia parabola è conclusa. Sono un uomo ridicolo. Anzi, a pensarci meglio, sono un paranoico terminale.
Il libraio era seduto a uno dei tavolini del minuscolo bar e leggeva. Quando si accorse del mio ingresso mi salutò con la mano e poi tornò a leggere. Io cominciai a girare fra banchi e scaffali.
Presi tra le mani L’uomo senza qualità, lo sfogliai, ne lessi qualche pagina, lo rimisi a posto. E’ una cosa che faccio da molti anni. Da sempre, in realtà. Con Musil e soprattutto con L’Ulisse di Joyce.
Ogni volta mi confronto con la mia ignoranza e penso che dovrei leggere questi libri. Ogni volta non mi riesce nemmeno di comprarli.
Credo che non conoscerò mai direttamente le avventure – diciamo così – del giovane Dedalus, del signor Bloom, di Ulrich. Me ne sono fatta una ragione, ma in libreria continuo a sfogliare quei volumi, così, come in una sorta di rituale dell’imperfezione. La mia.
Continuando a gironzolare fui attirato da una bella copertina con un bellissimo titolo. Notti nei giardini di Brooklyn. Non conoscevo né l’autore – Harvey Swados – né l’editore – Bookever. Lessi qualche rigo della prefazione di Grace Paley, mi convinse e lo presi.
Entrò un giovane poliziotto. Si diresse da Ottavio, gli chiese qualcosa. Fuori lo aspettava, parcheggiata in doppia fila, una volante.
Adocchiai un libro dal titolo Nulla succede per caso. Decisi che faceva al caso mio – qualunque fosse, il caso mio – e presi anche quello. Il poliziotto uscì con un libro in un sacchetto, di quelli che si trovano solo nella libreria di Ottavio. Da una parte c’è il disegno di una tazza da caffellatte fumante, azzurra e senza manici, con il nome della libreria. Dall’altra, stampate sulla plastica, una pagina di romanzo, una poesia, una citazione da un saggio. Cose che piacciono al libraio e che lui vuole consigliare ai suoi notturni clienti.
Mi sento già molto meglio. Le librerie mi fanno da ansiolitico e anche da antidepressivo. Le ragazze erano uscite senza che me ne accorgessi. Adesso eravamo soli, Ottavio e io. Mi avvicinai.
“Ciao, Guido. Come te la passi?”
“Alla grande, me la passo. Cosa ha comprato il poliziotto?”
“Non ci crederai”
“Poesia ininterrotta”.
“Eluard?” chiesi stupito.
“Già. Sarai uno dei tre o quattro avvocati nel mondo a conoscere questo libro. E lui, l’unico poliziotto”.
“Non farà carriera”.
“Credo anche io. Cosa hai preso, tu?”
Gli mostrai i libri che avevo scelto e lui approvò. Swados, soprattutto.
“E tu cosa stai leggendo?”
Il libro che aveva in mano era piccolo, con la copertina color crema, di un’altra casa editrice sconosciuta: Edizioni dell’orto botanico.
Me lo porse. Si intitolava: La manomissione delle parole; sottotitolo: appunti per un seminario sulla scrittura. Nessun nome di autore in copertina. Lo sfogliai e ne lessi alcune frasi…
… “Hai solo questa copia?”
“Si, ma puoi prenderla, se vuoi. Perché ti interessa?”
Già. Perché mi interessava?
Ho un vecchio desiderio che ho recentemente tirato fuori, e una amica mi assicura che si avvererà. Il desiderio è diventare uno scrittore e vedendo questo libro ho pensato di studiare un po’. Così, per facilitare il compito a quello del dipartimento lampade magiche, quadrifogli e stelle cadenti.
Fantasticai un poco su quelle frasi e su altre cose. Senza rispondere alla domanda di Ottavio. Lui mi lasciò fare e parlò solo quando gli parve che fossi tornato da quelle parti.
“Non vai pazzo per il tuo lavoro, vero?”
Feci una specie di sogghigno. Non andavo pazzo per il mio lavoro, effettivamente.
“E se potessi cambiarlo, cosa ti piacerebbe?”
Ma è un’epidemia, questa dei desideri. Ditelo, che vi siete messi d’accordo.
“Mi piacerebbe scrivere. I libri sono la cosa che mi piace più di tutte. Mi piace leggerli e mi piacerebbe scriverli, se fossi capace. In realtà non lo so se sono capace, visto che non ho mai avuto il coraggio di provarci”.
Ottavio fece di si con la testa e basta. Mi piacciono quelli che non fanno commenti stupidi. E il modo migliore per non fare commenti stupidi, in certi momenti, è semplicemente tacere.
“Beviamo qualcosa?”
“Si”
“Rum?”
“Rum”
Prese una bottiglia dal banco bar e versò due doppie porzioni. Bevemmo e chiacchierammo a lungo, di un sacco di cose. Ogni tanto entrava gente. Qualcuno comprava un libro; qualcuno guardava e basta.
Un tizio sulla cinquantina, in giacca, cravatta e cappotto, si infilò nei pantaloni La trilogia della città di K., abbottonò il cappotto e si diresse verso l’uscita. Ottavio se ne accorse, mi pregò di scusarlo un attimo e lo raggiunse sulla porta.
Disse che gli sarebbe piaciuto poterli regalare, i libri. Ma purtroppo davvero non poteva. Era costretto a farseli pagare. Lo disse senza una punta di sarcasmo. L’altro balbettò qualche parola del tipo: non capisco proprio di cosa sta parlando. Ottavio, con il tono paziente di chi ha fatto altre volte lo stesso discorso, disse che c’erano due possibilità. O quello pagava il libro e se lo portava – e avrebbe avuto lo sconto – oppure lo rimetteva sullo scaffale, andava a dormire, non era successo niente e poteva tornare quando voleva. Quello allora disse, che va bene, lo prendeva. E in una straordinaria, surreale sequenza andò alla cassa, tirò fuori il libro dalle mutande, pagò – con lo sconto - , prese il suo bravo sacchetto e andò via augurando la buonanotte a tutti.
“Beh, c’è gente che non si vergogna di niente” dissi.
“Non puoi immaginare quanto. Io però non riesco ad arrabbiarmi con quelli che cercano di rubare i libri. Ne ho rubati tanti, io stesso. E tu?”
Dissi che non avevo mai rubato un libro. Non fisicamente. Ne avevo letti tanti abusivamente, in libreria, però. Nessuno da lui, precisai.
Poi guardai l’orologio e mi resi conto di quanto fosse tardi, considerato che il giorno dopo avevo udienza. Chiesi quando dovevo, per libri e rum.
“La bevuta la offro io. I libri invece me li devi pagare perché, come ho detto al signore, davvero non posso regalarli”.
[…]

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